E’ noto come obesità e problematiche di salute del fegato siano tra loro strettamente correlate, come è noto che lo stato infiammatorio promosso dall’eccesso di adipe nell’organismo conduca ad una pletora di patologie tra cui anche quelle epatiche. Un recente articolo pubblicato su “Immunity, Inflammation and Disease” da parte di Yunfei Luo e Hui Lin dell’Università di Nanchang, in Cina, fa luce come tra questi fattori esista un circolo vizioso che porta nel tempo, se non interrotto con adeguati interventi terapeutici, ad un progressivo peggioramento (leggi l’articolo in inglese).
Partendo dai presupposti che:
1) in caso di obesità, si riscontra un basso grado di infiammazione persistente nell’organismo (una sorta di febbriciattola subdola che logora lentamente sistema immunitario, apparto cardiovascolare ed organi metabolici);
2) il primo organo a fare “scorta” di calorie sotto forma di trigliceridi (i “bit coins” metabolici del nostro corpo, poco virtuali e molto energetici) sia il fegato, assumendo oltre una certa soglia le caratteristiche del “fegato grasso” (NAFLD, “nonalcoholic fatty liver disease” o malattia del fegato grasso non per abuso alcolico);
3) oltre ad essere fattore di rischio per la progressione verso l’epatite cronica, la cirrosi ed il tumore del fegato, la NALFD incentiva a sua volta l’infiammazione;
manca solo a questo punto un passaggio per chiudere il cerchio: lo stato di sofferenza del fegato favorendo l’infiammazione e l’insulinoresistenza (difficoltà del pancreas nel tenere sotto controllo gli zuccheri del sangue perché le cellule del nostro corpo non rispondono più correttamente agli stimoli dell’insulina da lui prodotta) peggiora le condizioni metaboliche complessive favorendo ancora di più l’aumento della massa adiposa.
Le frontiere della terapia, in questo ambito, dovranno in futuro concentrarsi su quali siano i parametri specifici dello stato infiammatorio ad indicare stato e severità della progressione, chiarendo così il livello di gravità metabolica dell’obesità e consentendo di ottenere maggiori riscontri oggettivi su come si modifichi nel tempo il quadro clinico, auspicando un miglioramento grazie alle cure effettuate.
Non esistono infatti dei parametri univoci che consentano di specificare il grado di severità in una situazione di obesità: il rapporto peso-altezza (“body mass index” o BMI) è un numero comodo ma sterile; la presenza di patologie già conclamate, associate all’obesità, rende certo idea di complicanze manifeste ma non consente un intervento precoce essendosi queste già manifestate; la diagnostica, sia di laboratorio che strumentale (ecografie, risonanze, ecc..), offre poche chiavi di lettura e comunque disarticolate fra loro. Attualmente sono la sensibilità e l’esperienza del clinico le armi migliori per riconoscere le sfaccettature presenti ed intervenire in modo differenziato, ma senza una linea guida oggettiva (aggiungo: senza armi terapeutiche personalizzabili nel vero senso del termine e senza dei percorsi clinico-assistenziali strutturati, capillari e supportati dal SSN) la battaglia contro la pandemia da obesità (termine oramai dimenticato, di fronte a pandemia ben più d’attualità) sarà solo una battaglia contro i mulini a vento.